Riflessione post terzo appuntamento dei Dialoghi, a cura di Patrizia Ripa

DATA: 18 Febbraio 2025

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l flusso di coscienza nel mondo antico e in quello moderno di James Joyce

Il flusso di coscienza nella letteratura di James Joyce… e non solo. Abbiamo avuto il piacere di essere informati questa mattina – nei Dialoghi di Donne in corriera – anche sul flusso di coscienza nella scrittura del mondo classico, grazie alla presenza della prof Antonella Prenner che ci ha illustrato come alcuni autori della letteratura latina, da Catullo a Petronio e Apuleio, abbiano già nei secoli passati anticipato la possibilità di scrivere – anche seguendo la tradizione orale – in maniera frammentaria, con una sintassi non sempre scorrevole, esattamente come avveniva per Joyce.

È stata una magnifica scoperta, quella che lega il mondo classico al mondo contemporaneo.
Il professor John Mc Court, rettore e docente di letteratura inglese presso la facoltà di lingue di Macerata e uno dei massimi esperti di
Joyce ha elaborato in maniera molto chiara il pensiero di Joyce nella sua produzione letteraria, partendo dalle short stories Dubliners,
Gente di Dublino in cui si avverte uno stile lineare, tradizionale per poi passare a Stephen Dedalus (o ritratto di Artista da giovane) fino alla grande rivoluzione del suo romanzo antiromanzo Ulysses, cui ha fatto seguito l’ancor più complicato Finnegans Wake.

In Ulysses, grazie anche agli schemi dei critici Linati e di Gilbert che lo stesso Joyce aveva fornito loro, identificando simboli di vario
genere (ogni episodio associato a un colore o a una parte del corpo umano) si può risalire in qualche modo agli episodi dell’Odissea
omerica e vedere corrispondenze, seppure in maniera frammentaria, dettate dal flusso di coscienza attraverso il pensiero dei personaggi antieroi di Leopold Bloom, di Stephen Dedalus e più di ogni altro di Molly Bloom, la Penelope infedele che recita alla fine uno dei più famosi esempi di monologo interiore – spesso rappresentato a teatro – in cui domina la mancanza di punteggiatura, il susseguirsi dei pensieri confusi, frammentari e disconnessi come confusa e frammentaria è spesso la realtà della nostra mente, e come si assiste nel tormentato e rivoluzionario Novecento, in cui sono venute meno tutte le certezze.

È stato interessante scoprire che anche nei secoli passati, nei momenti di crisi in cui emerge il desiderio di innovazione e di rottura con il passato corrispondano ricerche espressive in cui si fa uso della parola in maniera non tradizionale. A partire dalla storia della letteratura latina, dalla scriptio continua all’oralità fino al romanzo moderno e contemporaneo, varie sono state le testimonianze dei diversi autori che hanno voluto infrangere le regole sintattiche e di punteggiatura tradizionali. Il prof Mc Court ha citato anche autori quali William James e Valéry Larbaud.

È stato un connubio interessantissimo portato avanti con maestria da due dicenti superesperti, John Mc Court e Antonella Prenner, entrambi molto coinvolgenti e appassionati. Mr Joyce era un gran tipo. Lui stesso affermò che aveva inserito così tanti rompicapi nel suo Ulisse da darci tanto materiale su cui riflettere lasciando al lettore un impegno che può durare tutta la vita per risolverli. In tal modo si è garantito l’immortalità. Sì, perché Joyce, oltre ad essere un autore complesso e affascinante, arguto e irriverente è anche dotato di molta ironia e senso dell’humour. Basti pensare che in Ulisse si chiede una domanda insolita e dissacrante: perché il sacerdote non beve birra al posto del vino durante l’eucaristia nella celebrazione della messa? questo, insieme a tanti altri elementi possono suscitare il riso nel lettore, per cui l’opera di Joyce che appare a tutti troppo difficile e talvolta anche un po’ pesante può vantare anche momenti di comicità, basta saperli cogliere.

Un capitolo a parte merita Finnegans Wake, l’ultima opera di Joyce in cui tutto avviene intorno ad un cadavere che si sveglia all’improvviso. Durante la veglia al morto che per gli irlandesi è una festa in cui tutti i familiari bevono whisky e cantano le canzoni gaeliche, il corpo di Tim Finnegan si risveglia e comincia a raccontare episodi vari della sua vita che sono quelli della vita dell’uomo in generale, per cui l’opera assume carattere universale.

Basti pensare che l’ultima parola di questa di questo romanzo antiromanzo è “the”, l’articolo determinativo, per immaginare di quale non-grammatica o non-sintassi possa essere capace quest’opera. Il lettore fa fatica a decifrare le acrobazie linguistiche di Joyce. L’opera infatti fu ritenuta da Nabokov quasi di “una intelleggibilità inutile, una lettura possibile solo per lettori iniziati”.

Scritta con termini in più di 40 lingue e vocaboli spesso inventati e coniati dall’autore sulla base di assonanze e musicalità, l’opera rappresenta, come ha scritto il traduttore e lo studioso Enrico Terrinoni, grande conoscitore di Joyce, una sfida per il lettore che diventa anche traduttore nella misura in cui deve tradurre nella sua mente ciò che potrebbe essere il significato della parola scritta, un’operazione decisamente complessa che stimola la nostra curiosità intellettuale. È un’opera infinita che sembra sempre ricominciare perché ha “una fine” Fin e un “di nuovo”, un inizio, Again. L’opera, certamente unica e originale nel suo genere, rappresenta un momento di forte impatto linguistico e culturale per chi la legge ( o tenta di leggerla!)

Il professore Mc Court – da bravo irlandese- ha anche accennato al fatto che probabilmente Joyce si è vendicato con l’uso di un idioma che vada oltre l’inglese, tentando di liberarsi dalla lingua di un paese colonizzatore che da sempre ha condizionato tutta la cultura dell’Irlanda.

Il tempo è volato, avremmo potuto continuare a parlare di Joyce per ore e ore (almeno io ne avrei avuto gran desiderio) e scoprirne sempre aspetti nuovi, poiché non c’è mai una sola interpretazione, ma una pluralità di visioni dell’opera che ciascun lettore attribuisce in base alla sua esperienza personale. Qui la grandezza di Joyce.

Quando gli fu detto che la sua opera era oscura, lui rispose (nel capitolo terzo dell’Ulisse, Proteus) “ma perché non è forse oscura la nostra anima?” Decisamente oscura se si tenta di entrare nei meandri della mente umana.

Ancora una volta la coscienza è stata oggetto di studio e di riflessione in questo ciclo di incontri dedicato a questo tema.
Flusso, stream, river, come quello del fiume Liffey che attraversa Dublino e l’anima di Joyce.

Patrizia Ripa

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