“Là dove c’è il pericolo cresce anche ciò che salva” Incontro con Silvio Perrella

DATA: 17 Luglio 2019

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Libreria Laterza 11 Luglio 2019 ore 18

SILVIO PERRELLA presenta alle Donne in Corriera il suo libro Io ho paura (Neri Pozza, 2018, pp.124, euro 15,00).
Dialoga con l’autore Katia Beringerio.

 

“Là dove c’è il pericolo cresce anche ciò che salva”
di ROBERTA MONACO

 

Maria Laterza introduce SILVIO PERRELLA, critico letterario, scrittore e grande studioso di Calvino, rimarcando il fatto che “Tutti gli anni concludiamo con Silvio Perrella le attività della Associazione, nonostante sia l’11 luglio”, e ringraziando la Presidente GABRIELLA CARUSO felice di accogliere colui che ci regalerà una pausa e un rilassamento (riflessivo) perché è prima di tutto un poeta.

Ed è proprio con la lettura, poetica, della bravissima socia KATIA BERLINGERIO che comincia il piacevole incontro con questo libro dal titolo Io ho paura, non un romanzo, non un saggio scientifico, dirà Perrella, piuttosto un racconto. Ci legge l’incipit, poi passaggi intensi tratti dalle prime pagine, che riesce mirabilmente a saltare, senza fermare la lettura, come un delfino nell’acqua. Si, perché bisogna attraversare il mare, come fa il protagonista che è un bravo nuotatore. La lettura sembra un amalgama puro di parole. Lo stile poetico dell’autore ci culla e ci “tocca”.

Katia si ferma e smentisce ogni paura, presenta l’autore come un amico affezionato delle Donne in Corriera, scrittore con molte pubblicazioni all’attivo (tra cui Insperati incontri, Giùnapoli , Terra e mare, scritto a quattro mani con La Capria), siciliano d’origine ma napoletano d’adozione, Perrella si perde nelle città o luoghi geometrici ma non in luoghi dove ha scelto vivere come Napoli. È considerato “un“ raffinato narratore dello spazio urbano e dei sentimenti che lo abitano”.

Infatti questo libro già dal titolo si presenta come un percorso esplorativo di uno dei sentimenti dai quali vorremmo tenerci più lontani, la paura, con cui ci misuriamo sin dall’infanzia, di cui riconosciamo subito i sintomi, perché sappiamo quanto sia paralizzante, in grado di azzerare la nostra volontà. Tendiamo però a considerare la paura in modo indistinto, perché noi consideriamo allo stesso modo la paura di restare bloccati in ascensore, o in un incendio o vittime di un atto terroristico. I sintomi sono sempre gli stessi, li riconosciamo fisicamente, ma con l’età cambiano le cause scatenanti di questo sentimento?

PERRELLA affronta un tema preoccupante, che oggi, in una società globalizzata e globalizzante come la nostra, lo è ancora di più. Il protagonista del libro è un nuotatore senza nome che trascorre l’estate in un luogo dal nome Qui, un’isola? Forse. Un luogo isolato. Un arcipelago di paura. Un luogo disabitato dove non c’è quasi nulla o quasi. Ci sono persone con nomi strani che come il protagonista passano un mese qui, anzi Qui. Il luogo, piccolo, marino e boscoso, è abitato da una pazza, un pescatore, da personaggi particolari, immaginari … poiché “qui succedono cose naturali ma scoccianti, ti puoi perdere, trovare Hansel e Gretel, incrociare qualcuno che ti fa paura come Nina la pazza, ma magari è innocuo, cadere e farti male sulle pietre, o inciampare nei pini che, costretti da vento, devono vivere rasoterra, imbatterti negli alberi di fichi, con la loro prossemica da guerrieri”, insomma in questo luogo le paure naturali, quelle che ti toccano, le sperimenti tutte”. Se c’è il nulla attorno è” a tu per tu con noi stessi” che dobbiamo avere a che fare.

Ma allora, cos’è la paura genericamente intesa? L’autore affronta questo tema di grande portata, inquietante, questo sentimento difficile da” dire”, in modo lieve, poetico ma anche molto serio, oggi ancora di più, perché si è ribaltata nei nostri tempi la paura, è “un oggetto che dilaga e diventa metafisica”, e la politica, sottolinea PERRELLA, dovrebbe pensare a questo problema; paura collettiva, paura individuale, i sintomi sono gli stessi, se la si analizza si comprende che è un sentimento antico che ci abita, e che non c’è sentimento se non c’è la passione. Gli viene in mente il personaggio inventato di Cupido, il suo dardo che ti tocca, ti fa sanguinare, però ti provoca con il contatto un sentimento, perché c’è un sentimento se c’è un contatto. Anche se doloroso, questo sentimento “primario” lo definisce PERRELLA, ti fa scoprire che sei innamorato.

Intanto bisogna distinguere la paura naturale (che ha un nome) dalla paura industriale, prefabbricata. Oggi viviamo in un mondo dove si stanno perdendo il ‘contatto’ e i contatti, ad esempio ci racconta dei difficili contatti tra i ragazzi, con cui lui ha conversato nelle scuole, e di come il contatto sia oggi sostituito da una parvenza di contatto, il racconto di un contatto, l’illusione di un contatto, che è ben diverso dal contatto di Cupido, il dardo che ci tocca. Il mondo in cui siamo chiamati alla relazione invece dovrebbe spingere verso “una temperatura emotiva”, e PERRELLA ce la fa sperimentare con un gioco:” immaginate che improvvisamente in questa sala noi non ricordiamo più il nostro nome”, ed interpella il pubblico, che alla fine gli regala la risposta che cerca, per spiegarci meglio lo stato fisico, emozionale, in cui ha scritto il libro. Si tratta di uno stato di alterità, di avventura, ma piacevole, così il personaggio riflette su questo sentimento così complesso, e scrive un diario della paura. La paura è un sentimento che “ti tocca”, si vive sulla pelle, lui sarà assalito, si sarà misurato con la paura, in acqua il nuotatore sarà sospinto dal vento e potrà finire sugli scogli e vivrà la difficoltà di risalire a terra.

KATIA BERLINGERIO prova a interrompere con la sua analisi attenta e scrupolosa perché ha colto che l’autore/protagonista non è di queste paure che vuole scrivere, della paura naturale che provavamo da bambini quando ci coprivamo con il lenzuolo, no, non di quel sentimento antico ma naturale che ci abita, che ci ha fatto quel che siamo, ma della paura che ci fa sudditi, che non ha nome, la paura industriale, la dittatura della paura (che piaceva tanto all’editore per il titolo e i contenuti), che si cela sotto sigle, acronimi (ISIS), parole senza nome o personaggi impossibili (ad esempio migranti non è un nome proprio). Mentre la paura naturale ha un nome. Il primo movimento della relazione è il battesimo. Il battesimo dei nomi. E qui Perrella chiama in causa i poeti, i primi battezzatori del mondo Ma sto diventando digressiva come PERRELLA e mi devo controllare.

L’autore è un gran camminatore (oltre che bravo nuotatore), ha scritto libri sul camminare, è conosciuto per camminare a piedi (Giùnapoli), “sono viaggiatore delle città” e ci racconta il suo modo di passeggiare nelle metropoli come New York che è quello di” tracciare un percorso fino ad un punto da cui quasi non saprei tornare indietro, invece è un modo di conoscere e anche di scrivere”. Si è scritto da sé Io ho paura questo libro intenso che ci provoca una temperatura emotiva. Leggiamo ancora alcuni estratti… Il nuotatore va prima stile libero, poi a dorso e dunque due percezioni diverse e opposte del mondo, della realtà, perdersi è un modo di conoscersi. “Pensate se avessimo uno specchietto retrovisore – invenzione che ha cambiato il mondo!- dietro di noi per avere percezione della cosa avanti e dietro contemporaneamente”, e non “il nulla dietro di me” di Montale.

Ma torniamo alla paura. Alle sue tante facce. Vi è finanche una sensualità della paura, una paura come eros, perché ci attrae inspiegabilmente. La paura che PERRELLA chiama industriale è invece preventiva perché non ne abbiamo fatto ancora esperienza, qualcosa che potrebbe avvenire, ma che non si è provato, come avvenne a Torino (lo zainetto lasciato nella piazza, il possibile attentato); paura per ciò che non si conosce, dalla paura si passa al panico (diverso dall’angoscia) se non si riesce a tenere a bada la paura come quando affrettiamo il passo davanti a un cane e questo lo stimola a mordere. Ci narra delle conversazioni quando ha portato il libro nelle scuole. Uno studente si interroga sul tema della paura e conclude dicendo: visto che dalle paure non ci libereremo mai perché non ci abituiamo a convivere con loro? A scuola i ragazzi la pensano così, come imparare a nuotare, quando non ci si governa perché non si conosce. Viene in aiuto la nostra brava e bella lettrice/attrice, ci legge un brano dove si comprende la paura che non ha nome, la paura fabbricata, industriale, senza un oggetto preciso, la paura collettiva, come all’epoca del colera.

Da piccolo l’autore teneva diari, iniziò a scrivere per fare ordine, tenendo diari, tra l’altro di notte, eppure è diventato un critico letterario, venti anni fa, ed ha studiato Calvino (e non solo) per venti anni, e il suo libro è ancora in libreria. Invece scopre che la sua letteratura “è un’altra letteratura, letteratura di linguaggio”, dice Perrella perché c’è un lavoro sul linguaggio (che non vuol dire manierismo); lui è uno scrittore di cose, come Verga, reinventa la lingua a partire da un dato di “cose” che lo scrittore deve rappresentare, come fa Verga con i pescatori, “quei” pescatori. E mi sta per sfuggire il deittico “qui”… Decide insomma di vivere emotivamente il linguaggio in cui scrive, non una teoria ma eros del linguaggio, dove la frase va come una frase sottomarina, ondula, ha una forza, ma non una trama; infatti PERRELLA non scrive libri di trama, come i gialli che oggi vanno tanto di moda. Ci racconta anche un aneddoto della vita di Pirandello e Verga che compiva ottanta anni, nel 1920, per spiegarci il fenomeno della letteratura, e gli scrittori fenomenali che annovera. E separa: lo scrittore di cose, Verga, dallo scrittore come D’Annunzio. Verga inventa la lingua a partire da un dato di cose che lo scrittore deve rappresentare, non è uno scrittore mimetico perché reinventa la lingua a partire da questo oggetto, questa barca, questo luogo. PERRELLA si emoziona anche nel raccontare un fatto letterario, ma che diventa umano, troppo umano.

Dunque i libri vivono nel linguaggio in cui sono scritti. Nella dimensione immaginativa di chi scrive e di chi legge. E se raccontiamo un libro, come stiamo facendo, corriamo il rischio di ucciderlo. Difficile “uccidere” un libro così bello, polifonico, pensa KATIA BERLINGERIO, Lo stile poetico di PERRELLA ci culla, mentre ci invita a riflettere, con la sua onestà, le sue parole perfettamente incastonate come un mosaico l’una nell’altra, un intarsio bellissimo”, dove il racconto cede il passo al saggio, a riferimenti filosofici, musicali, letterari, artistici (come il quadro in copertina, di cui PERRELLA ci spiega la storia e le storie sottese), intreccio di voci, secondo un metodo compositivo in cui il lettore si perde per ritrovarsi. E La letteratura è un fenomeno strano, è un accadimento strano, non è un fenomeno lineare (per spiegarlo PERRELLA cita Forster Camera con vista: mi immagino che tutti gli scrittori siano seduti accanto, allo stesso tavolo, e scrivano tutti la loro opera, Shakespeare accanto a Diderot…).

“Analisi lucida e onesta delle paure, noi ci riconosciamo ma abbiamo difficoltà a riconoscerle e nominarle: io ho paura”: quale è il peso specifico della paura chiede KATIA, abbiamo pudore, difficoltà a dichiararle, quale antidoto? Così si spiega anche il peso specifico del titolo del libro. Sempre in un incontro nelle scuole, dove prima di rompere il ghiaccio ci vuole tempo, ci racconta del coraggio di una ragazzina che lo ha fatto,” se lo dico pensano che sono debole e dunque sarei attaccata”. Ci vuole coraggio e così la ragazza ha detto la parola per tutti. Come i poeti, creare un organismo linguistico significa che l’altro può abitare le sue parole. Con questo libro, con il titolo scelto (nessuna allusione al bel libro dell’amico Niccolò Ammanniti Io non ho paura ), e con le riflessioni di KATIA, che ormai gli “può dare del tu”, Perrella scopre di aver costruito una relazione più stretta sul rapporto con i nomi, forse se lo riportiamo al sistema della relazione, e dire “io ho paura” significa che le diamo un nome, la facciamo restare dentro il sistema del linguaggio, dei nomi. Così questa affermazione trova riscontro nel testo, e KATIA legge (p.91) dove quel clima di allerta perenne che è il clima dell’oggi, ci riporta allo stile comunicativo dei cortei, alla dimensione collettiva e individuale dove si grida “IO NON HO PAURA”. Ma se facessimo girare il linguaggio dalla parte opposta?” ammettere di aver paura, IO HO PAURA, beh, per questo ci vuole coraggio”, continua PERRELLA, “io penso che sia più saggio e onesto ammettere di aver paura, più rivoluzionario, io non ho paura è la negazione di un sentimento”. Invece PERRELLA sembra lanciare un appello a prendere coscienza della paura, sente questa urgenza di metter in connessione noi stessi con le cause e con gli effetti. Distinguere. E fa un altro esempio mutuato dal teatro. Se prima i Greci si “purgavano” vedendo cose inimmaginabili nella realtà ma che a teatro si realizzavano per suscitare la catarsi nello spettatore attraverso il teatro, ora questo non esiste più. Questo si è perduto. Meno male che la Letteratura non è un fenomeno lineare e quindi questo fenomeno potrebbe tornare…

Chi sono i fabbricatori di paura? Chiede l’intervistatrice, il cinema ad esempio? Quando la sala rimaneva vuota alle scene di paura, come ai tempi dei fratelli Lumières? Forse il tempo non passa mai del tutto, come il libro più grande che è stato costruito nel secolo scorso, Alla Ricerca del Tempo Perduto di Proust, dove capiamo che il tempo, la memoria, deve essere involontaria, come per la Madeleine, se il già stato si costituisce con l’adesso quella è una rima, solo allora è una rima della vita: cuore amore.

“Questo è il mio libro più nudo”, io che sono un critico letterario abituato alle note, alle fonti, ho uno stile tutto nuovo, nudo” dice PERRELLA, non ci sono capitoli, né un intrigo, nulla. Eppure è un libro avventuroso. Si, perché in fondo scrivere un libro è “scordarsi”, perché un libro è legato alla temporaneità, a un momento, ed i lettori lo fanno vivere, l’autore non lo scrive più. Il segreto è nel tono, nell’incedere rapsodico del pensiero, dice KATIA “il libro è bellissimo, si può considerare polifonico, non è solo un racconto, è un intarsio, segue il metodo compositivo, con il suo stile, “terso” (IARUSSI, Oscar, Perrella, frammenti di un discorso pauroso, Gazzetta del Mezzogiorno, 7.07.2109), una meta narrazione in cui lo scrittore ci rende partecipi, dialoga con noi, ci rende parte e parti del libro.

E se vogliamo… aiuto, per restare nel campo semantico della paura, PERRELLA invita a leggere la poesia di Kavafis Aspettando i barbari (la città ti seguirà…), presente nel suo libro Doppio Scatto, ma noi invitiamo lui stesso a leggercela. Il refrain, le parole del poeta di Alessandria, sembrano un po’ la risposta, la soluzione, la chiave di volta di tutto ciò che abbiamo letto e detto finora. Abbiamo sforato con il tempo. Gli interventi del pubblico sono tanti.

La Presidente GABRIELLA CARUSO, attenta, in prima fila, fa outing ed ammette le sue paure: ma se lo gridassimo insieme o in una folla, sarebbe più facile superarle? Forse. Ma è ora di andare. Ultimo appuntamento, perché tanto, per riprendere le parole di Holderlin che ho messo in esergo “Là dove c’è il pericolo cresce anche ciò che salva”.

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