Incontro con Vito Calabrese

Edizione 2017
LUOGO:

Libreria Laterza


PERIODO:

4 Maggio 2017

DETTAGLI:
Il 4 maggio 2017 presso la Libreria Laterza, Vito Calabrese ha presentato il libro Portare la vita in salvo (edizioni La Meridiana, Molfetta, pp.112, euro 15) alle Donne in Corriera.
Hanno dialogato con l'autore Diane Guerrier e Carmen Cazzolla.
Letture: KATIA BERLINGERIO.

Portare la vita in salvo… un libro salvifico? di Roberta Monaco “Era prevedibile. Paola avrebbe detto che dipende dalle aspettative che abbiamo dalle cose. Molti a malapena guardano oltre il loro naso” (p.23) La materia è difficile questa volta. Anche se è passato un po’ di tempo dal triste giorno, il mattino del 3 settembre 2013, quando la bella, giovane e brava psichiatra Paola Labriola è stata assassinata nel Centro di salute mentale di via Tenente Casale a Bari da un suo paziente mentre faceva il suo lavoro: un trauma per la famiglia e per la comunità barese. La materia è il dolore. per questo è difficile parlare. L’esordio è proprio una poesia di Charles Baudelaire (1821-1867) sul Dolore, Recueillement (Raccoglimento) tratta da Les Fleurs du mal. Ce la legge DIANE GUERRIER, in francese. Questa la traduzione Sii saggio, mio Dolore, e calmati! Volevi la Sera? Eccola, è scesa! Un’atmosfera oscura avvolge la città a chi porta la pace, a chi l’affanno. Mentre la moltitudine vile dei mortali va raccogliendo rimorsi nella servile festa, sotto la frusta di quel boia ch’è il Piacere Dolore mio, dammi la mano, vieni qua, lontano da loro! Come si chinano i defunti Anni sui balconi del cielo in vesti antiche! Come sorge dal fondo delle acque il Rimpianto ridente! Guarda! Il sole morente s’addormenta sotto un arco! Ascolta, mio caro, ascolta la dolce Notte che cammina come un lungo lenzuolo fluttuante nell’Oriente!

“La raccolta di poesie I fiori del male è del 1857, ma il concetto del dolore è lo stesso, ed ho scelto di iniziare con questa bellissima poesia, un po’ come un omaggio a Vito, per aver scritto un libro di letteratura e sulla letteratura”, partendo dall’esperienza dolorosa della perdita della moglie Paola; ci offre nel suo libro Portare la vita in salvo (edizioni la meridiana, Molfetta, 2016, pp.112, euro 15) una bibliografia di autori e testi che per noi che amiamo la lettura è molto “caro”, prezioso. Dopo aver, con Baudelaire, approcciato il tema del dolore dicendo dolcemente “donne-moi la main/ dammi la mano,viens par ici”, lo inviti, lo accogli. La scrittura, la lettura, è diventato uno dei pochi luoghi dove il dolore si può raccontare…

E la seconda lettura è la bravissima KATIA BERLINGERIO a farla. Stavolta apriamo una pagina del libro di VITO CALABRESE. “Eppure oggi il dolore è diventato uno spettacolo molto esibito. Televisione, cinema e letteratura mostrano la sofferenza, soprattutto quella dei bambini, per trarne una lezione positiva di coraggio e ottimismo. Si vuole a tutti i costi dare un senso al dolore, mentre il compito della letteratura è – almeno entro una visione rigorosamente laica – proprio quello di testimoniarne il non senso radicale, senza produrre alcuna morale ottimista o edificante” (p.57). Poi gli chiede di spiegare quello che definisce come “la pornografia del dolore”. Così Vito risponde “In quei giorni non avevo ancora perso il sonno e quando mi chiamarono il giorno dopo la morte dalla “La Vita in diretta” e altri programmi, mi dissero: che bello, venga qui a raccontarci…Io ero basito e non riuscii a rispondere a queste trasmissioni dalla lacrima facile…”. Lui chiarisce che per il suo mestiere, lavora come Psicologo e Psicoterapeuta in un consultorio familiare da 30 anni nei servizi psichiatrici pubblici, anche lui è un “lettore” come noi, con la differenza che è stato capace di “scrivere” il dolore, affrontare quel “brutale viaggio nella sofferenza, impigliandosi nell’inconcepibile forza di gravità del dolore” (p.34).

E se è riuscito ad emozionarci, a farci ritrovare le risonanze, se ci ha fatto piangere, paradossalmente lui è felice, anche perché non ama “ciò che è mieloso”. L’idea, interviene DIANE, è quella di réparer les vivants, dal bellissimo libro di Meylis de Kerangal Riparare i viventi,”un libro che mi pare una cassa di risonanza perché è speculare come situazione ma il modo vertiginoso di affrontare il dolore, di portarlo avanti” e allude a quella metafora del corpo per cui alla madre la notizia della tragedia fa “perdere l’equilibrio” , come accade a Vito, che perde un pezzo di sé, del proprio corpo. La lettura di questa pagina che inizia con “ci si abitua a tutto” (p.51) rivive i dialoghi sur-reali con gli altri e ci fa penetrare in quella che Vito definisce “la visione sociale della vicenda di Paola” (p.54)…

CARMEN CAZZOLLA rileva come nel libro ci siano molti passaggi che sono immagini che scorrono con frequenza e si ripetono sempre diverse perché vogliono o sperano di riuscire a colmare il vuoto, dare un significato. Ecco perché ci si appella al concetto, ben snocciolato, della resilienza. Così chiede a Vito se ci vuol parlare più direttamente di questo vissuto e della forza che ha tirato fuori, di come è riuscito a “proteggere” Paola, i figli, se stesso, dall’attacco degli estranei, dall’esposizione al rischio. “In alcuni casi mi sono divertito a scrivere o rispondere a certi giornalisti, a volte più imbarazzati di me, ecco perché mi sono sentito libero, non mi sono difeso troppo, sono stato sovraesposto sul piano mediatico, allora visto che avevano scritto e detto tutto su di me, ho voluto scrivere io un libro su questo, le sfilettate roventi del ricordo saranno motore per la mia penna”. Poi Vito ci parla dell’importanza del suo lavoro e dei colloqui di lavoro, anamnestici, pensiamo agli aspetti più danneggiati per trovare gli elementi per una possibile rinascita. Un paziente schizofrenico simpatico durante un laboratorio disse che poteva suonare la chitarra. Noi scoprimmo che lui sapeva suonare, cantare e scoprii degli elementi che alcuni autori chiamano ‘resilienza’. Concetto oggi inflazionato, nel mio libro parlo di alcune esperienze di soggetti che hanno trovato la forza di reagire, di ‘rinegoziare’ l’identità. Anche il dolore può essere un’occasione spirituale di dar prova delle proprie virtù. Penso allora al ruolo costruttivo, attivo, degli incontri di formazione organizzati dall’Osservatorio Paola Labriola, nato per volere della cugina, a cui ho partecipato (nda). È qui che ho avuto modo di conoscere le grandi capacità relazionali di quest’uomo, la sua pacatezza, la sua tenacia, “ l’assenza di sentimenti di vendetta o rancore” (CAZZOLLA), i meritati riconoscimenti ottenuti anche dal Presidente della Repubblica. L’Osservatorio è un luogo di riflessione, convergenza, promozione di “buone pratiche”. Per riuscire a perdonare, a non essere “colonizzato” dall’altro. Ripete Vito quando cerca di spiegarci come nel suo lavoro di psicologo si deve lottare con l’identificazione con l’aggressore. Ricorda a tal proposito un libro che stava leggendo Paola, di Clara Mucci, sul complesso rapporto trauma/perdono. La letteratura è come il cinema, l’arte, uno dei luoghi in cui si può raccontare e rappresentare il dolore. “Dove si può parlare di certe cose terribili se non in un libro?” DIANE GUERRIER richiama la bellissima scrittura di Keranghal che riesce a sublimare il trauma, e quella di Vito che collega la storia personale con la grande storia (lo sterminio nei lager, il genocidio degli Armeni), o con la storia di Paola, con la sua fiducia nell’uomo, che richiama il tema della sicurezza sul luogo di lavoro (solo dopo la tragedia hanno messo una guardia giurata). Ma il tema di questo libro, come bene indica il titolo, è la vita. Non è un libro che si lascia catalogare, etichettare facilmente. Romanzo, saggio, autobiografia, poesia, gli ingredienti ci sono tutti. Questo libro è azione, è vita. Un libro sulla vita, non sulla morte come sarebbe naturale credere. Nel titolo l’espressione, Portare la vita in salvo, va intesa in senso laico (‘salvezza’ rimanda a quella teologica), ha una carica salvifica, di fiducia, di amore. Potenza semantica. Come l’uso del modo infinito che il titolo possiede, perché si può trasformare in un imperativo dolce per come l’autore tratta la materia umana…troppo umana. Non un semplice racconto, né un mero bisogno di raccontarsi, bensì una grande fiducia nelle parole, nella Parola con la lettera maiuscola (anche qui non nell’accezione teologica), nel portare la letteratura in salvo. Quella letteratura che ci aiuta a capire noi stessi, a conoscerci, ad attraversare corpo e mente. Scrivere è un’attività “ordinatrice”, afferma Vito, “smuove delle cose dentro”, la chiama “cecità oracolare”, in senso lato. Insomma ognuno avrebbe bisogno di uno psicologo che non c’è, oggi paradossalmente c’è maggiore solitudine. E c’è tanto bisogno di “lettura”.

Questo è stato per me (nda) un libro che leggi in un soffio (perché la vita “è” un soffio), un libro che ti porti dentro. Anzi meglio, che ti porta dentro. Dicono che quando la scrittura funziona, come in un film, ci sembra un po’di viverlo, ‘agirlo’, respirare insieme ai personaggi, patire con loro. E questo avviene, perché non si tratta di un libro “su” Paola ma “con” Paola, che ritorna col suo sorriso disarmante, attraverso i suoi scritti “ritrovati”(p.41 Paola e gli scritti), che sembra parlarci ancora, in silenzio. Che il sisma della morte non ha “ridotto al silenzio”, così come non ha ridotto al silenzio l’autore, il cui dolore perfetto (ossimoro che ritorna, forse perché difficile da comprendere e accettare) l’ha reso, per così dire, immune, “immunizzato dalle piccole o grandi ferite che non potranno eguagliare mai la perdita incredibile di Paola” (p.110). Sembra assurdo (ma perché la vita non lo è?), ma può esistere una bellezza del lutto, che non è fatto solo di vuoto, mancanza, desolazione, “nostalgia del futuro” ( titolo che l’autore, rispondendo alla mia domanda, ha dichiarato di aver scelto in un primo momento per questo libro), ma anche di tutto quello che l’amore vissuto può continuare a generare nel presente attraverso il rapporto con gli altri, con la bellezza di altri racconti. Le nostre miserie non sono poi così distanti da quelle degli altri. Gli oggetti parlano, anche nell’assenza (saudade), le foto narrano, e la parola poietica, parente stretta della parola poetica, rivela, ci apre all’imprevedibile, ci fa credere in quella riserva di forza sconosciuta che si chiama resilienza, nella forza della memoria, nella pienezza del vuoto.

Ed è la voce di Paola, quasi un segno cataforico nella geografia della sua esistenza, nell’excipit del libro, che scivola su di noi come una lacrima, a conclusione. Non omnis moriar, non morirò interamente, scriveva Orazio nel primo secolo avanti Cristo. Perché di tutti noi rimane una traccia, se la si vuole lasciare. “Anche se il baratro c’è, quello resta”.

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